“Virginia”, una storia di tormento, estasi e catarsi

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“Virginia”, una storia di tormento, estasi e catarsi

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«Io mi sono chiesta quale vita poteva condurre una donna chiusa per quattordici anni in una piccola cella senza porte o finestre, e soprattutto mi sono chiesta come aveva fatto a non impazzire»; questa è la domanda che Claudia Ryan si è posta dopo aver assistito a una rappresentazione teatrale sulla monaca di Monza. La pièce si concludeva con la carcerazione della religiosa, ed è proprio per tentare di rispondere all’interrogativo suscitato da questo drammatico finale che la Ryan si è cimentata nella composizione di un breve quanto struggente romanzo storico, Virginia (Leone Editore, 2012, pp. 157, *ripubblicato nel 2017 da Amazon), vincitore di quattro premi letterari. La figura della monaca di Monza è stata fissata nell’immaginario collettivo da Alessandro Manzoni il quale, attraverso le pagine de I promessi sposi, volle immortalare la vera vicenda della Signora di Monza, suor Virginia Maria de Leyva.

Claudia Ryan inizia dal post, da quando Virginia è già stata murata viva, per tornare all’ex, all’origine della colpa che ne segnò irrimediabilmente la sorte e, attraverso un’operazione di dissezione psicologica sulla sventurata, dà voce al caleidoscopio di passioni che avevano infuriato nella sua fragile anima, la quale nulla poté contro la forza dell’amore. L’erezione di un muro proietta Virginia nel suo destino di penitente; il ricordo di quella brusca cesura con la vita passata è nitido: «Un filare di mattoni, poi il secondo, il terzo… sapevo cosa mi aspettava […] ma in quel momento mi prese il panico. […]Il muratore stava incastrando i mattoni dell’ultimo filare e quando anche l’ultimo mattone fu fissato il buio calò». Dopo un periodo di smarrimento, la donna cerca di ricostruire se stessa, di dare un senso e un ritmo a quelle giornate che non hanno inizio e non hanno fine ma si confondono in un buio continuum; è sola con se stessa, Virginia e, ormai, con se stessa deve fare i conti: inizia allora un viaggio nella propria memoria raccontando ad alta voce la vita passata, i sentimenti e gli errori che l’hanno condotta là dentro.

È buffo e sembro una pazza a parlare solitaria ad alta voce, ma raccontare i miei pensieri è una pratica che con il tempo ho apprezzato. Mi permette di ascoltare una voce, benché sia la mia, mi aiuta a rimanere lucida. Inoltre, risentire la mia storia mi fa riflettere sui peccati commessi, capisco meglio i meandri del destino che mi hanno portato a questo duro presente.

Un muro – si diceva – ha segnato l’inizio di una fase dolorosa della vita della donna, e un muro, molti anni prima, aveva visto nascere nel suo cuore attese, speranze, fremiti di cui ella, ventenne, era ignara e che, ormai già monaca, mai avrebbe immaginato di poter provare. Quella parete separava il convento dalla proprietà della famiglia Osio, aristocratici scapestrati e violenti, e la giovane Virginia si beava contemplando, attraverso una fessura, l’aitante Gian Paolo, senza malizia, ma con l’ingenua e avida curiosità di una fanciulla a cui la monacazione forzata aveva precluso quelle emozioni che accompagnano la giovinezza. «Si potrebbe mai vedere una cosa più bella?» ella si chiedeva affascinata e possiamo immaginare il rossore del suo volto e un sospiro,  nascosta dietro quel muro fiorito di piccole margherite in quella lontana primavera. Anche Gian Paolo era affascinato da Virginia e, nonostante ella fosse combattuta tra il rispetto per i voti pronunciati e il desiderio di lasciarsi travolgere dalla passione, riuscì a vincerne le resistenze e a trascinarla con sé in una storia d’amore che per lei fu anche una descensio ad inferos. Ripercorrere le tappe di questa caduta è doloroso ma necessario per spogliarsi definitivamente della vecchia Virginia  — la bella e ammirata Signora del monastero ancora troppo pericolosamente attratta dal secolo — e purificare l’anima affinché sia degna di ottenere il perdono di Dio. Rievocare ad alta voce i momenti della sua perdizione consente a Virginia di non omettere nessun dettaglio, la inchioda ancora di più alle proprie responsabilità. Ne risulta una autobiografia che è quasi una confessio sul modello di quella agostiniana; l’anima contrita fa ammenda delle proprie miserie confidando nella misericordia del Signore, in un dialogo sincero e appassionato con Lui. Il ricordo genera sofferenza, vecchie ferite ricominciano a sanguinare, ma il dolore è catartico e quel sangue lava via le macchie delle colpe. L’amarezza di sapersi peccatrice è lievemente mitigata dalla consapevolezza che alla radice del peccato non ci fu una futile passione sensuale, ma un vero amore; Virginia non cedette per lussuria ma perché la vita le presentò — troppo tardi invero — l’occasione di saziare quella fame di affetto e tenerezza che sempre le erano stati negati, ponendo sulla sua strada un giovane che la ricambiò con un sentimento così travolgente quale forse non avrebbe conosciuto se fosse stata destinata a un matrimonio combinato dal padre. Ma questo amore —  profondo, totalizzante, esclusivo — era inconciliabile con l’abito che ella indossava, con la promessa di castità fatta a Dio, così, per quanto umanamente comprensibile, quel peccato fu commesso e Virginia, severo giudice di se stessa, non si autoassolve, non cerca scusanti ma intende espiare, con la preghiera, con la penitenza e con il fermo proposito che, da quando avrà ottenuto il perdono da Dio, dedicherà la sua vita a renderGli lode con una condotta specchiata.

Solo dopo aver bevuto fino all’ultima goccia del calice amaro del suo turpe passato, ecco che il miracolo si compie:

E, nell’abbandono, improvvisamente ho sentito la sua voce. La voce di Dio, le sue parole erano chiare, scandite, intense, la sua voce tonante e dolce al contempo. Mi ha detto: «Virginia, ti perdono. Io so che sei pentita veramente, posso vedere il tuo cuore, posso sentire la tua anima. Vivi nel mio nome e nella misericordia».

Le pagine in cui Claudia Ryan descrive la beatitudine raggiunta dalla penitente redenta sono intrise di misticismo e trasudano della perfetta letizia, della suprema pace che qualunque figlio prova riconciliandosi con il padre; senza addentrarsi in concetti teologici, ma facendo parlare il cuore, la Ryan evoca una dimensione metafisica in cui il corpo e lo spirito godono all’unisono della visione beatifica. L’anima di Virginia, trasfigurata, libera dai gravami del peccato, si eleva al di sopra delle pareti della cella claustrofobica, le cui tenebre vengono dissipate dalla luce della Grazia; la ascensio è conclusa e la creatura, rinnovata, è pronta a rinascere:

Questa piccola cella è come un utero materno, quando questo muro sarà abbattuto io rinascerò e avrò davanti a me una nuova vita.

* Specificato, rispetto al testo originale, da Claudia Ryan

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