Scende una pioggia impalpabile, vapore che intride l’atmosfera.
Scende da un cielo grigio le cui nubi fanno da contrappunto al dolce paesaggio collinare, incontaminata campagna inglese.
Il vento è sferzante, gelidamente nordico, atavico come le pietre che si impongono superbe e impassibili. Per loro non esiste la frenesia del tempo; scorre con un ritmo tanto lento da non riuscire neppure a scorgere la fugacità delle nostre presenze.
Semplici pietre, trasportate, sbozzate e collocate dall’uomo. Un disegno preciso, un progetto grandioso nato da una lontana mente geniale. Stonehenge.
Un mistero intellettuale, mistico.
Un’energia oscura, eppure presente, sensibilmente concreta, probabilmente inesauribile.
Una forza ancestrale che l’Uomo ha sentito, non ha potuto trascurare e, come catturato da un magnetismo inesorabile, l’ha dovuta sottolineare con una edificazione grandiosa.
Le pietre sono tavolozze materiche, continue variazioni di sfumature cromatiche in un gioco di creazione senza fine.
L’umidità portata dal vento ti entra dentro con l’aria che respiri. Si ha così la percezione di assimilare fisicamente il luogo, aumentando la sensazione di contatto, di appartenenza, anche se per un breve istante.
Pecore bianche dal muso nero. Soffici batuffoli sparsi su un verde intenso. Armonia bucolica che convive con la seria gravità dell’impianto litico.
(Claudia Ryan, 2008)
