Appunti per una CONFERENZA (2015 -2017)
LE DONNE YAZIDE RESE SCHIAVE DALL’ISIS
LE DONNE YAZIDE, IL KURDISTAN, L’ISIS E ALTRO ANCORA
Oggi parleremo del popolo yazida, del Kurdistan iracheno, dell’Isis, di cosa è successo il 3 agosto 2014 e di come vivono adesso coloro che hanno perso tutto perché sono dovuti scappare a causa dei Daesh.
Parleremo in particolare delle donne yazide, di coloro che sono state prese prigioniere dagli uomini Daesh, rese schiave (Sabaye) e che poi sono riuscite a scappare.
Chi sa chi sono gli yazidi?
Chi ha sentito parlare della strage di Sinjar?
Sinjar è stata liberata il 13 di novembre 2015, ma la città è completamente distrutta.
Il Kurdistan è diviso tra quattro nazioni (Iraq, Iran, Siria e Turchia), conseguenza della ridefinizione dei confini di questi paesi dopo la Prima guerra mondiale.
I curdi sono così diventati il più grande gruppo etnico al mondo privo di uno Stato, con una popolazione stimata che oscilla tra i 35 e i 40 milioni di persone.
Dal punto di vista religioso, i curdi non professano un’unica fede: alcune aree del Kurdistan sono ormai secolarizzate e laiche, altre sono mussulmane e prevalentemente sunnite. Un gruppo molto numeroso è rappresentato dai cristiani di varie confessioni. Ci sono poi yazidi, zoroastriani ed ebrei. La lingua curda appartiene alla famiglia indoeuropea, è diversa dal turco e dalle lingue arabe dell’Iraq e della Siria.
Lo scontro per l’indipendenza è stato condotto anche in Iraq, da parte del Partito democratico del Kurdistan (Pdk) e dell’Unione patriottica del Kurdistan (Upk). Il regime guidato da Saddam Hussein, nel corso degli Anni ’80, ha reagito alle azioni di guerriglia curde con brutali e feroci repressioni. Come il bombardamento della città di Halabja con armi chimiche da parte dell’esercito, avvenuto il 16 marzo 1988. Nel corso dell’attacco sulla città con i gas velenosi, almeno 5 mila curdi furono sterminati e altri 10 mila feriti.
La forza militare curda è rappresentata dai peshmerga. Il nome di «peshmerga» significa «di fronte alla morte» e rimanda all’intenzione di battersi appunto fino alla morte.
La sofferenza di ciò che è successo nella regione di Sinjar la si può trovare ovunque: a questo peshmerga i Daesh hanno ucciso un figlio e rapito una figlia e non sa che fine ha fatto.
Dal 2005 il Kurdistan iracheno è una regione autonoma, dipende da Bagdad per i ministeri dell’educazione e della difesa, ha un suo parlamento con un suo presidente, Masoud Barzani. (N.B. Barzani è stato presidente fino al 1 novembre 2017)
Le varie religioni coesistono pacificamente in Kurdistan e ci tengo a sottolineare che i capi religiosi mussulmani della regione hanno ufficialmente condannato i Daesh dicendo che non si possono ritenere dei fedeli mussulmani.
Oggi parliamo degli Yazidi, minoranza etnica che pochi conoscevano fino al 2014 e, che per la verità, ancora oggi molti non conoscono. Nel mondo ci sono circa un milione di yazidi, di cui quasi 600.000 sono in Iraq. Gli Yazidi, nella storia, hanno subito 72 genocidi.
Gli yazidi sono monoteisti, credono perciò in un Dio e sette angeli, di cui il più potente è Malek Taus.
I Daesh li considerano politeisti e per questo senza diritti, meno ancora di noi cristiani o degli ebrei.
La società yazida è divisa in tre gruppi, potremmo definirle tre caste, anche se non sono una superiore all’altra, ma sono “orizzontali”, però chi fa parte di un gruppo non può sposarsi con qualcuno di un altro gruppo: le tre caste sono i Peer, i Shexh e i Mreed.

Il loro centro religioso è Lalish, un villaggio che si trova tra le montagne, a nord-est da Duhok. Sul suolo di Lalish bisogna camminare a piedi nudi, in quanto suolo sacro.
A Lalish vivono i loro capi religiosi, tra i quali Baba Chawish che ho incontrato durante la mia visita. L’ho trovato molto demoralizzato, ha chiesto aiuto a tanti governanti, associazioni, ambasciate… tutti molto comprensivi ma a lato pratico poi non fanno niente.

Le foto ci mostrano il cuore di Lalish. Le anfore contengono olio d’oliva che ogni anno vengono riempite. L’olio servono ad accendere le lampade al calar del sole perché il buio non deve mai prevalere, la luce deve vincere sulle tenebre. Ovviamente è allegorico, la luce rappresenta il bene e il buio il male. Gli yazidi pensano che in ogni uomo coesiste bene e male, sta ad ognuno scegliere da quale parte stare, Dio ci lascia liberi di scegliere.
Ho detto che credono in 7 angeli, ogni angelo ha un colore diverso e i nodi che vediamo ai tessuti sono dei desideri, delle richieste che i fedeli fanno ad uno degli angeli.
I templi yazidi sono comunque non solo a Lalish, qui ne vedimo uno a Khanke.
L’arrivo dei Daesh
Quando i Daesh arrivarono a Sinjar il 3 agosto 2014 e nei dintorni della città, hanno sempre ripetuto più o meno lo stesso copione, questo significa che c’erano delle direttive ben precise.
Molti comunque sono riusciti a fuggire: chi in auto, chi a piedi, chi sulle montagne, ma tutti loro avevano una cosa in comune: non hanno avuto la possibilità di portare nulla con loro. Ora vivono nei cambi IDP che vedremo più tardi.
Riguardo a chi è fuggito vi racconto due storie. La prima è di un uomo conosciuto a Duhok che lavora per la Croce Rossa tedesca. Lo incontravamo ogni giorno nella hall dell’albergo e l’ultimo giorno abbiamo chiacchierato un po’ e ci ha raccontato la sua storia: quando sono arrivati i Daesh lui con la sua famiglia e la famiglia di suo fratello sono fuggiti in un piccolo villaggio dei dintorni di Sinjar. Una famiglia mussulmana li ha messi in salvo in un casotto dismesso. In quel paese c’erano pochi Daesh e non riuscivano a controllare ogni casa. Dopo qualche giorno li hanno messi in contatto con un uomo che aveva un camion e avrebbe potuto portarli in salvo, ma voleva dei soldi (consideriamo che se li avessero trovati l’uomo rischiava la vita). Così hanno raccolto da tutti i componenti delle famiglie i soldi che avevano con loro, riuscendo ad arrivare a circa 700 euro. L’uomo li ha portati tutti in salvo.
La seconda storia è di questa donna in primo piano, Sara. È una sociologa che ora lavora per il Jinda Centre, di cui vi parlerò più tardi. Lei è scappata da Sinjar in auto: erano 23 persone tutte sulla stessa automobile. Tra loro c’era un bambino e una donna incinta: erano fratelli e sorelle, mogli e mariti, mamma e papà. Quando sono partiti con l’auto si sono accorti che era in riserva. La benzina è bastata giusto per portarli in salvo. Il giorno dopo la donna incinta ebbe il bambino.

Chi non è riuscito a fuggire ha avuto sorti ben diverse. Quando i Daesh arrivavano dividevano subito gli uomini dalle donne. Uomini uccisi subito (dagli 11 anni in su). Alcuni uomini sono sopravvissuti perché si sono finti morti dopo essere rimasti feriti in fucilazioni di massa.

Le donne poi venivano divise per età. Delle donne ultracinquantenni non si sa più nulla, perciò sono state presumibilmente uccise anche loro. Dopo il 13 novembre hanno trovato a Sinjar una fossa comune con i resti di circa 80 donne, ma sembra che di fosse ce ne siano di più.
Le altre donne venivano caricate su pullman e portate in edifici pubblici, spesso nelle scuole. Tutte hanno raccontato di avere avuto cibo e acqua una sola volta al giorno.
Normalmente le ragazze prese dai Daesh sono state vendute, si conoscono casi in cui sono state vendute al mercato delle schiave fino a 6 volte. Una ragazza, l’ultima volta, è stata ricomprata dalla famiglia. Testimonianze dicono che una cinquantenne poteva essere comprata per 12 dollari, una ragazza molto giovane per 170 dollari.
In un rapporto di Amnesty International troviamo questo racconto di una delle ragazze che sono riuscite a fuggire:
“Un giorno ci hanno dato degli abiti che sembravano costumi da danza, ci hanno detto di lavarci e poi d’indossarli. Jilan si è uccisa in quel momento, nel bagno. Si è tagliata i polsi e poi si è impiccata. Era una ragazza molto bella. Penso sapesse che di lì a poco sarebbe stata presa da un uomo e per questo si è tolta la vita”. Jilan, 19 anni, si è suicidata durante la prigionia a Mosul perché temeva di essere stuprata. Come lei, decine di altre donne e ragazze di etnia yazida hanno deciso o tentato di togliersi la vita per il timore di essere violentate, vendute, regalate o date in sposa a combattenti dello Stato islamico nel nord dell’Iraq.
Io ho parlato con 5 tra donne e ragazze. Tra queste sei donne una si è salvata illesa grazie al fatto che aveva 7 bambini, era incinta ed è una donna furba e intelligente.
Invece la storia più pietosa è di Gulan.
Storia di Gulan.
45 anni, sposata, due ragazzi: 15 e 19 anni.
I Daesh li presero mentre stavano scappando in auto. La divisero dagli uomini della sua famiglia, portando via gli uomini con l’auto. Altri 4 Daesh le legarono le mani e le coprirono gli occhi a causa del fatto che lei si lamentava troppo e piangeva. Le sottrassero la carta d’identità e l’oro e la portarono a Rabiaa (riconquistata il 1° ottobre), dove stette un giorno. Non le diedero cibo e acqua per tutto il giorno e la picchiarono per convincerla a convertirsi. C’erano 4 uomini Daesh e 6 donne yazide di diverse età. Le picchiavano con un tubo e le ruppero i due denti superiori frontali.
Durante la notte le portarono a Tal Afar, arrivarono circa alle 2 di notte e le sistemarono in una stanza dove c’era anche un’altra ragazza. Voleva suicidarsi, ma non c’era nulla per poterlo fare.
I loro guardiani erano 10 uomini, ricevevano da bere acqua sporca e un pezzo di pane al giorno e le picchiavano per farle convertire. Lei pensava che era meglio morire che diventare mussulmana.
Poi le presero e le misero sotto il sole (era agosto) per un intero giorno, senza acqua, poi verso le cinque alcuni uomini ebbero pietà e le portarono in una stanza, ma senza dare loro acqua o cibo. Poiché a turno svenivano, allora i Daesh gli diedero un pochino d’acqua.
Dopo un po’ arrivarono con acqua e cibo, ma nell’acqua avevano messo del calmante, così che le donne fossero mezze drogate e non avessero le forze per ribellarsi, perché ogni donna venne stuprata dai 10 uomini.
Andarono avanti un mese in questo modo: picchiandole e stuprandole, tutti i giorni. Per un mese non videro il sole se non quando venivano accompagnate in bagno. Mangiavano una volta al giorno pane e acqua, dove c’era della droga. Loro lo sapevano, ma avevano sete e non avevano possibilità di scelta.
Dopo un mese le portarono in una scuola dove trovarono anche bambini e altre ragazze. Saranno stati in tutto circa 300 persone controllate da 50 Daesh. Stettero nella scuola due mesi, tutto il giorno ferme, sedute. Davano da mangiare cibo sporco, come per esempio riso con dentro dell’erba.
Prendevano le ragazzine dagli 11 ai 17 anni, le portavano via, le stupravano e le riportavano indietro. Alcune tornavano che presentavano anche dei morsi, alcune erano come catatoniche.
Due ragazze vennero vestite di bianco e furono obbligate a sposarsi; dopo alcuni giorni tornarono a trovare la madre ed erano completamente vestite di nero.
Anche Gulan fu presa dalla scuola e venne stuprata. La prima volta fu presa da un uomo che la portò a casa, ma la moglie di lui si oppose, allora l’uomo chiamò un amico e venne stuprata da costui. La seconda volta lei cercò di lottare, ma l’uomo la minacciò con un coltello e la costrinse con la forza. Una volta si salvò perché incominciò a piangere e a dibattersi mentre la portarono via: il carceriere consigliò all’uomo che la stava portando via di prenderne un’altra, tanto lei era vecchia, e si salvò.
Rimase in quella scuola due mesi, poi i Daesh arrivarono con un bus con i vetri oscurati e la portarono in un villaggio vicino a Tal Afar, dove c’erano già altre yazide.
Venne portata in una casa con altre 9 donne, tutte tra i 40-45 anni tranne una, che aveva 13 anni. Erano chiuse dentro, ma nessuno faceva la guardia. Portavano del cibo e dell’acqua una volta ogni 24 ore. Durante il giorno stavano sedute, a piangere, la notte venivano 7 uomini, ogni notte uomini diversi, e le stupravano. Questo durò per un mese.
La ragazzina di 13 anni rimase in cinta, lo scoprirono quando venne portata all’ospedale perché sveniva sempre. Il dottore le diede delle medicine che lei non prese perché non voleva il bambino. Gulan e le altre donne l’aiutarono ad abortire: la fecero sdraiare su una panca e una donna le salì sulla pancia in piedi. Dopo aver abortito i Daesh la portarono all’ospedale.
A Gulan successe la stessa cosa, stesso trattamento. All’ospedale le diedero delle medicine. Dopo una settimana che aveva abortito i Daesh volevano fare sesso con lei, ma li convinse che non stava ancora bene. Dopo venti giorni ritornarono e ricominciarono a stuprarla. Non si fecero vedere solo una notte, perché erano a combattere.
Una volta lei cercò di reagire, non voleva più farsi stuprare, allora la picchiarono così violentemente che da quel giorno Gulan soffre di dolori alla pancia.
Poi una notte, intorno alle 11, i Daesh dovevano andare a combattere e si dimenticarono di chiudere la porta, così le donne scapparono. Si misero a correre, ma non sapevano dove si stavano dirigendo. Per 4 giorni si nascosero quando c’era la luce e scappavano la notte. Bevevano da ruscelli, non importava se era acqua pulita o sporca. Finalmente incontrarono dei peshmerga vicino alle montagne di Sinjar.
Ora vive nel campo di Khanke. Con i soldi che ho raccolto qui a scuola tra gli insegnanti e alcune classi, il centro Jinda si sta occupando di lei e la porterà da un dentista.
Storia di Majida
Majida ha 45 anni, ora vive con la sua famiglia di origine (mamma e papà) a Duhok. Quando si era sposata era andata a vivere in un paesino vicino a Sinjar.
Quando i Daesh arrivarono il figlio sposato e il marito uscirono di casa e lei li vide uccidere sotto i suoi occhi poiché stava guardando dalla finestra al primo piano.
Quando ha raccontato questo fatto la commozione ha preso il sopravvento: pensate a quale disperazione doveva aver provato nel momento in cui vide uccidere figlio e marito.
Fu presa dai Daesh con sua figlia di 14 anni, suo figlio di 7 anni e sua nuora che aspettava un bambino.
Rimasero tutti insieme prigionieri per un po’, finché la nuora non partorì: a quel punto la portarono via e di lei e del nipote non sa più nulla.
Poi le portarono via anche la figlia, comprata da un influente capo Daesh. Lei lavorò come cuoca e infermiera in Siria. Dopo un certo tempo la figlia chiese di rivedere la madre, e le fecero incontrare, ma da quel momento non ne sa più niente.
Per tutti i dolori che stava vivendo le venne un ictus che le provocò una emiparalisi nella parte destra e venne lasciata senza cure per 4 mesi. Lei e il figlio si salvarono grazie a una scambio di prigionieri durante il quale 350 yazidi vennero liberati.
Storia di Samia
Samia ha 17 anni.

Vedremo che anche lei verrà spostata da un luogo all’altro molte volte, è un po’ una costante in queste storie. Samia vide anche l’uccisione di una cinquantina tra bambini, ragazze e donne. Quando i Daesh arrivarono a Sinjar il padre di Samia era al lavoro nei campi. C’erano lei, sua mamma, suo fratello di 19 anni sposato e la moglie. Uccisero subito il fratello e lasciarono andare la madre e la nuora perché non avevano posto in auto per caricarle tutte e tre (furono molto fortunate). Presero Samia perché era la più giovane e la portarono in una scuola a Bahaj, un villaggio vicino a Mosul, dove c’erano altre ragazze. La lasciarono lì un’ora, poi con le altre ragazze venne portata a Tal Afar e poi a mezzanotte vennero spostate ancora a Mosul. Piangevano, erano disperate, non sapevano cosa gli sarebbe accaduto.
A Mosul prima la portarono in un palazzo a tre piani, dove c’erano tante altre ragazze, alcune delle quali le conosceva. Il secondo giorno i Daesh presero il nome di tutte, poi prelevarono la più bella per il principe. Il giorno seguente prelevarono tutte le altre meno 10. Tra cui Samia. Il giorno dopo presero le altre 8, lasciarono lì solo Samia e un’altra, dal nome Samira, di 19 anni.
Le portarono a Falluja, vicino a Bagdad, un viaggio in auto con due uomini durato dalle 7 del mattino fino alle 4 del pomeriggio. La loro meta era una moschea, dove gli diedero da mangiare e poi arrivarono due uomini che le portarono con loro, Abu Jahfar e Abu Hassan. Samira voleva uccidersi, ma Samia la convinse a non farlo. Inutile dire che le due ragazze vennero stuprate dai due uomini, i quali, comunque, volevano che le due ragazze di convertissero per sposarle, a tal punto che Abu Jahfar diede il telefono a Samira per chiamare la sua famiglia e convincerli a convertirsi e a raggiungerla. Samira diede l’indirizzo di Falluja e disse che c’era anche Samia. Il padre di Samia aveva degli amici a Falluja, i quali una sera alle otto sfondarono la porta e trovarono le due ragazze da sole e le misero in salvo.
Rimasero nascoste per una settimana, poi vennero trasferite a Bagdad e poi a Duhok.
Samira è andata in Germania nel maggio scorso, sostiene che se dovesse incontrare quei due uomini li ucciderebbe.
Duhok
È il capoluogo del governatorato di Duhok e fino agli anni Settanta era un villaggio tra le montagne. Ha avuto una grande espansione negli anni Ottanta ed ora è anche sede di un polo universitario.
Khanke e Sharia
Khanke si trova a pochi chilometri da Duhok. Qui si trova un grande campo IDP, il primo ad essere stato organizzato, ora ce ne sono molti altri. Io ho visitato anche quello di Sharia.
Fuori dal campo ci sono circa 4700 famiglie che dipendono dal Governatorato di Duhok, ma qui non c’è l’organizzazione e il supporto che si può trovare dentro al campo, ognuno si arrangia come può.
Campo di Khanke: (AGOSTO 2015)
18.064 persone (agosto 2015)
2.864 famiglie
3120 tende
All’interno del campo c’è un ambulatorio dove vengono trattate dalle 300 alle 500 persone al giorno dai 22 membri dello staff medico. Inoltre ci sono anche 8 psicologi (6 donne e 2 uomini) per il supporto psicologico.
Barzani Fondation provvede al cibo per il campo: alle famiglie vengono dati sacchi di riso e altri tipi di cibo.
Qui troviamo quelle persone che sono riuscite a fuggire ma che hanno perso tutto. Molti hanno l’auto, che riparano con cura dal sole, perché sono fuggiti con quella. Tutti sperano di tornare nelle loro case, ma ora che Sinjar è stata riconquistata sappiamo che di case non ne sono rimaste.
Centro Lalish
Finanziato dal governo, è come se fosse un’associazione culturale, organizza incontri e conferenze, si occupa della comunità, ma da quando è stata occupata Sinjar aiuta anche la popolazione fuggita e le ragazze che tornano dopo essere state schiave dei Daesh. Gli uomini che ci hanno accolto erano molto dignitosi, la maggior parte erano vestiti all’europea. Benché quel giorno fossero tutti uomini (era venerdì, giorno di festa), i membri del Centro Lalish sono anche donne.
Il centro Jinda
Adesso vedremo un po’ di fotografie che riguardano il centro Jinda, qui vedete il loro logo, che è stato realizzato mettendo una accanto all’altra le mani di ragazze fuggite dall’ISIS.
È un centro organizzato da un’associazione irachena e tedesca non a scopo di lucro, si chiama WADI Organisation.
Hanno affittato un edificio e l’hanno arredato per accogliere le ragazze yazide che sono state schiave degli uomini dell’ISIS e poi sono riuscite a fuggire e quelle siriane rifugiate in Kurdistan.
Accolgono un gruppo di 30 ragazze ogni 2 settimane, ogni volta provengono da un campo IDP diverso.
L’idea è quella di aiutare queste ragazze a superare quello che hanno vissuto. Durante queste due settimane si rilassano, all’interno del centro non possono entrare uomini, e hanno a disposizione una sala con la televisione, una saletta dove poter riposare, una grande cucina e dei laboratori dove vengono organizzati dei corsi terapeutici (cucito, make-up, gioielli e cucina). Inoltre hanno a loro disposizione una psicologa.
I prodotti che realizzano (gioielli di perline, vestiti per bambini, biscotti) vengono venduti per raccogliere fondi.
Lo scopo è quello di farle ritrovare l’amor proprio, la dignità perduta, farle ritrovare il sorriso.
Il team di donne che porta aventi questo progetto e lo gestisce è formato da mussulmane, yazide e cristiane.
In queste foto vediamo un gruppo di donne e ragazze il primo giorno della loro permanenza a Jinda e l’ultimo: molte di loro sono più sorridenti.
Jinda ha anche due unità mobili, ogni unità è formata da un autista e due sociologhe che vanno a visitare i vari campi e ad aiutare chi ne ha bisogno. Quando eravamo là una tenda nel campo di Sharya era bruciata, così gli abitanti avevano perso tutto per la seconda volta. Quando ci siamo recati a Sharya con l’unità mobile di Jinda, le sociologhe avevano portato un po’ di vestiti ed erano andate a vedere cosa avevano bisogno.
Il centro Jinda ha perciò bisogno di fondi, costantemente. Dal 2015 ogni anno raccolgo fondi e li mando per Natale.
Kurdistan
Il Kurdistan per fortuna non è solo morte, guerra e campi IDP.
Vi voglio far vedere anche qualche bella immagine di questo paese molto affascinante.
Qui abbiamo la valle Qsra Sadame, a circa un’ora distanza da Duhok, una valle ampia e bellissima, a tal punto che Saddam Hussein ci fece costruire uno dei suoi tanti palazzi, che è quello che vedete in cima alla collinetta al centro della foto. Considerate che qui d’inverno nevica, perciò lo scenario è molto vario a seconda delle stagioni. In questa valle c’è questo locale molto particolare, si chiama Zawita, ed è un bar ristorante all’interno di una caverna naturale al centro della quale scende l’acqua che proviene da una cascata che si trova più su sulla montagna.
Questo invece è quello che resta del palazzo di Saddam Hussein. Da qui il dittatore aveva una magnifica vista sulla vallata e sul laghetto adiacente.
La prima volta che ho inviato soldi a Jinda Centre ho chiesto di cercare Gulan e di portarla dal dentista. Una domenica mattino ho ricevuto un po’ di foto e un piccolo video amatoriale molto commovente. Ecco alcune foto:
Da questo viaggio è nato il romanzo “Hana la yazida – L’inferno è sulla Terra”.