Il vaso di fiori sul davanzale. Quella mattina Krystyna aveva iniziato a pensare a quel suo vasetto in terracotta, dalla forma banale, ma che ravvivava la sua stanza ogni estate con dei fiori che, puntualmente, ricrescevano in primavera. Krystyna riuscì persino a sorridere al pensiero dei fiori.
Amava la sua camera: un letto di legno con un intarsio in madreperla sulla sponda e un comodo materasso, il copriletto ricamato, un armadio con lo specchio sull’anta e una piccola scrivania dove stava a studiare e a fare i compiti. E poi i cuscini colorati, le bambole… ora sembrava tutto così lontano, sembrava un sogno.
La sua famiglia aveva una bella casa in via Izaaka nel quartiere Kazimierz a Cracovia, un appartamento in un edificio in mattoni che, sopra alla porta, aveva la data di costruzione: 1906. Era vicina alla piazza del mercato e lei amava andare a fare la spesa con la mamma. C’era la signora che vendeva i polli e veniva dalla campagna, il signor Rubinowicz che preparava un pane buonissimo, la signora Bielski che aveva sempre la verdura fresca. Krystyna sospirò lievemente. Pensò anche ai suoi bei vestiti, ne aveva uno in velluto marrone con il colletto di pizzo che amava particolarmente. Era bello indossarlo dopo aver fatto un bagno caldo nella vasca, con il sapone profumato. Al quel pensiero una lacrima le rigò la guancia.
A Krystyna piaceva la sua vita prima che arrivassero i nazisti, era felice.
Non riuscì mai a capire perché dovettero abbandonare tutto e andare a vivere in un altro quartiere di Cracovia, un ghetto racchiuso da un muro alto 3 metri, in cui i soldati li avevano ammassati. Suo papà le aveva detto che erano più di 16.000 in 320 case. Lì incominciò il periodo triste, e anche se tentarono di spiegarle i motivi, lei, Krystyna, non capiva perché non aveva il diritto di stare nella sua casa, di continuare a studiare nella sua scuola ed essere libera come gli altri abitanti di Cracovia non ebrei. Non era giusto.
Ma ormai aveva abbandonato quei pensieri sulla giustizia, aveva ben altri affanni.
Quella mattina, infatti, non riusciva ad alzarsi. Era distesa sul tavolaccio della sua baracca in quell’orribile posto che si chiamava Auschwitz II o Birkenau. Guardava fisso davanti a sé e pensava al suo vaso di fiori, alla sua casa e a tutto il resto, ma faceva fatica persino a respirare.
Avrebbe voluto dimenticare l’umiliazione di essersi dovuta spogliare nuda davanti a un uomo tedesco, e poi le avevano rasato i suoi bei capelli, le avevano portato via tutto e aveva dovuto mettersi quell’orribile vestito a strisce, sporco e puzzolente. Quanto era terrorizzata… aveva riconosciuto sua mamma a stento, dopo la rasatura dei capelli. Si erano abbracciate e avevano pianto.
«Dov’è il papà?» aveva chiesto, ma sua mamma lo ignorava. Non lo avevano più visto. Questo era successo qualche mese prima, non sapeva quanti.
Ora vivevano a stento: mangiavano una zuppa di rape a pranzo e del pane alla sera, poco, troppo poco. A Krystyna era venuta la dissenteria, ma le donne che erano al campo da più tempo avevano detto di non dire niente, di tenerlo nascosto, o, sapendola malata, l’avrebbero mandata a morire nelle camere a gas.
Le camere a gas… quando ne parlarono la prima volta non riusciva a capire cosa fossero, poi glielo avevano spiegato. A Krystyna, però, rimaneva una grande domanda a cui nessuno sapeva rispondere: perché?
Quella mattina l’avevano portata fuori le altre donne, sostenendola per l’appello generale, tutte in fila, l’avevano messa nel centro del suo blocco, così che le guardie non vedessero la sua debolezza. Ma ora non riusciva più a muoversi.
Il suo corpo dodicenne si era ridotto a uno scheletro e la dissenteria le aveva tolto tutte le energie. La mamma era dovuta andare a lavorare e l’aveva lasciata sola, dandole un bacio e dicendole di farsi forza. I tedeschi dicevano che il lavoro rende liberi… forse liberi di morire.
Krystyna ripensò ai fiori violetti sul suo davanzale, alle tendine di pizzo che si muovevano con la brezza e la luce del sole che entrava nella stanza.
Chiuse gli occhi e smise di respirare.