IL FUOCO NELLE TENEBRE di Claudia Ryan

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IL FUOCO NELLE TENEBRE: un romanzo su Gerbert d’Aurillac, la mente più brillante della seconda metà del X secolo.

La sete di sapere, le sue capacità intellettuali, la passione per la cultura e per la vita lo porteranno a viaggiare per tutta Europa, da Barcellona, al Califfato di Cordova, a Roma, a Reims, fino a Sasbach, e a frequentare le persone più potenti della sua epoca.

Sullo sfondo della vita dell’alto medioevo, tra epidemie, alluvioni, intrighi, riti pagani e religiosità, Gerbert vivrà un amore struggente e i successi e difficoltà di una carriera clericale.

IL FUOCO NELLE TENEBRE è un romanzo basato sulla vera vita di Gerbert d’Aurillac con qualche finzione narrativa.

Una storia avvincente, intrigante, per chi ama i romanzi storici.

In uscita a maggio 2014, Leone Editore.

Qui di seguito un breve saggio tratto dal romanzo.

Cap. 16

Cordova, luglio del 968

L’esame

Cordova. La poteva ammirare dalla sommità della collina. I romani l’avevano costruita in un’ampia vallata, sulle rive del Wadi al-Kabir. Poderose mura circondavano una fitta maglia di case bianche, ognuna strutturata con un cortile al centro. Una città che per Gerbert era uno scrigno di sapere. Gli parve immensa. Alcune strutture risaltavano sulle altre: un edificio con un’alta torre quadrata, altre costruzioni intervallate da ampi giardini, un magnifico ponte sul fiume.

A poche miglia di distanza, in lontananza, sul crinale di una collina vide una grande costruzione, doveva essere la residenza reale di cui Alfonso gli aveva parlato: Madinat Al-Zahra.

Il sole era basso all’orizzonte e una leggera brezza incredibilmente calda gli scompigliava i capelli. Il tramonto era prossimo e nella vallata l’aria, intrisa di umidità, era divenuta incandescente di luce, donando a Cordova quasi un’aurea celeste.

Gerbert si fermò, voleva assaporare tanta bellezza.

Era stanco. Ora, che poteva vedere la sua meta davanti a sé, si rese conto della fatica che aveva accumulato durante quei due giorni di viaggio. Era partito da Malaga al mattino presto, quando il sole era appena sorto. Alfonso gli aveva dato la lettera di presentazione promessa, gli fece le ultime raccomandazioni e si erano abbracciati forte. Alfonso si era dimostrato una cara persona e Gerbert sentiva di dovergli molto.

Era uscito da Malaga velocemente, senza guardarsi troppo intorno, perché sapeva di dover affrontare due giorni di cammino. Aveva seguito la strada che Alfonso gli aveva indicato e, dopo tutto, era stato facile arrivare fino a lì.

Al-Andalus era un susseguirsi di colline, la terra era fertile e i raccolti dovevano essere prosperosi. Su e giù, su e giù… una collina dopo l’altra, per due giorni consecutivi, ma ogni volta che arrivava su una cima era ripagato da una vista grandiosa.

La notte l’aveva passata all’addiaccio, sotto un meraviglioso cielo stellato, ma non si soffermò ad ammirarlo perché ebbe giusto il tempo di mangiare un po’ di formaggio e di pane, poi la stanchezza ebbe il sopravvento e si addormentò profondamente.

Cosa avrebbe trovato in quel luogo? Sarebbe riuscito nel suo intento di impadronirsi del sapere che gli Omayyadi custodivano nelle loro biblioteche, per poi riportarlo nelle terre cristiane? Si inginocchiò e pregò.

«Il Signore fa prodigi per il suo fedele; il Signore mi ascolta quando lo invoco. Ed io ti invoco Signore: ti prego, aiutami in questo compito, non farmi allontanare dalla via, proteggimi dal peccato e dalle distrazioni, sostienimi nei miei intendimenti. E perdonami. Amen.»

Il sole era sempre più basso all’orizzonte e Gerbert si mise in cammino per entrare nella città prima che le porte si chiudessero per la notte.

Non era certo l’unico viandante che si affrettava: c’erano contadini, uomini con carretti tirati da asini, tutti vestiti alla foggia araba ed erano tutti scuri di pelle e neri di capelli.

Più si avvicinava, più le mura gli apparivano superbe e il giallo della pietra sembrava ancora più caldo con la luce del tramonto. Finalmente arrivò ad una delle porte e sentì che l’emozione aumentava.

Mentre varcava il confine della città pensò che non gli pareva vero di essere lì, un anno e mezzo prima era nel convento di Aurillac, che ora sembrava così lontano nel tempo e nello spazio… pensò al silenzio di quel luogo, ai canti liturgici, ai suoi amici, che tanto gli mancavano.

Iniziò a vagare senza meta. Le strade erano strette, pulite, lastricate di pietra. Le case erano piuttosto basse e bianche. La gente era vestita di colori chiari, gli uomini portavano lunghe tuniche con sopra un gilè e una striscia di stoffa colorata arrotolata sulla testa formava un turbante, come i mercanti a Vich. Le donne avevano morbidi abiti che arrivavano fino ai piedi, lunghe maniche che nascondevano le braccia, portavano un velo sul capo e, molte di esse, anche un velo su parte del volto, che le rendeva misteriose e affascinanti. Tutti sembravano indaffarati, ma senza fretta. Cordoba era una grande città, Alfonso gli aveva detto che superava il mezzo milione di abitanti.

Botteghe di tutti i generi si aprivano di tanto in tanto sulla via.

Gerbert tirò fuori dalla sua borsa la lettera che Alfonso gli aveva dato: era ripiegata e chiusa con un sigillo. Sul lato visibile vi era scritto un nome e poche altre parole.

Timidamente Gerbert fermò un uomo:

«As-salām ‘alaykum buon uomo. Potreste aiutarmi? Devo recapitare personalmente questa lettera ma non so dove recarmi…» L’arabo di Gerbert era chiaro, anche se un po’ titubante.

L’uomo lesse il nome e lo guardò sorpreso.

«Fa’ez! Vieni qui!» Un bambino arrivò correndo.

«Accompagna questo signore nel quartiere ebraico alla casa di Hasday ibn Shaprut e poi torna a casa subito. Hai capito?»

«Si, va bene.» rispose il bambino sorridendo, mostrando una dentatura con qualche dente mancante, tipico dell’età.

Il ragazzino incominciò a camminare velocemente in quell’intrico di vie piene di persone e Gerbert doveva stare attento a non distrarsi per non perdere di vista il suo conduttore. Finalmente, dopo diversi minuti di cammino, si fermò davanti ad una casa. La via era tranquilla.

«Questa è la casa del visir Hasday.» Era una casa bianca come le altre, ma l’ingresso era circondato da una cornice di pietra scolpita con intrecci geometrici e, ai due lati, erano già state accese due torce. Gerbert tirò fuori una piccola moneta d’argento, uno dei dirham Al-Andalus che Alfonso gli aveva dato, e lo donò al bambino, che immediatamente se ne tornò a casa di corsa.

Gerbert rimase un attimo a osservare la porta di legno, massiccia. In quella casa c’era il suo unico contatto, l’unica possibilità per accedere velocemente alle opportunità che quella società poteva offrirgli. Un contatto eccezionale, per la verità, perché Alfonso gli aveva spiegato che Hasday aveva una enorme influenza alla corte del califfo al-Hakam II, come era già stato con il padre Abd al–Rahman III, inoltre era un grande medico ed un eccezionale diplomatico. Hasday parlava latino, mozarabico, arabo ed ebraico. L’idea di essere di fronte ad un personaggio così influente, intimoriva non poco il povero Gerbert.

Sul portone c’era un batacchio a forma di stella a sei punte, e Gerbert lo picchiò forte. L’uscio si aprì e apparve un servitore di mezz’età.

«Chi cercate?»

«Ho questa lettera per Hasday ibn Shaprut. Devo consegnarla personalmente.» Seguì alla lettera le istruzioni di Alfonso.

«Posso vedere la lettera?» Il servitore sembrava cauto nell’aprire la porta ad uno sconosciuto.

Gerbert gliela mostrò e dopo averla osservata per un momento il servitore lo fece entrare facendo un leggero inchino e restituendogli la lettera.

«Venite, attendete da questa parte.»

Entrarono in una stanza elegante il cui pavimento era composto da piccole piastrelle, mentre tessere colorate in maiolica creavano un mosaico sulla parte bassa delle pareti. Da lì partiva una scala per accedere al piano superiore, mentre a destra e sinistra si passava in due diversi patii. Pochi mobili completavano il locale. Gerbert cercò di darsi un contegno, di comportarsi come avrebbe fatto il conte Borrell, o suo padre, sempre sicuri si sé e a loro agio in ogni situazione, ma in cuor suo era turbato da tanta eleganza e ricercatezza, che non aveva mai visto finora.

Un mobile aveva due ante con dei vetri, e Gerbert per un attimo si specchiò. Fu un breve istante, ma rimase smarrito di fronte alla sua figura riflessa: ma era lui, il monaco Gerbert? Vide un giovane bello, con una corta barba che faceva risaltare gli occhi color miele, i capelli non presentavano più il classico taglio dei monaci cluniacensi, ma erano tutti corti; la tunica, i pantaloni attillati e gli stivali slanciavano la sua figura. Quello era il nuovo Gerbert di Al-Andalus. “Signore perdonami” pensò Gerbert, che per un istante chiuse gli occhi, sconvolto da ciò che aveva visto.

Il servitore lo fece accomodare nel patio a sinistra, dove, sotto al portico che circondava il cortile centrale, erano collocate basse sedute con comodi cuscini.

Fiaccole e lucerne illuminavano l’ambiente con un luce calda e rassicurante e la musica di un flauto proveniva da un’altra stanza.

Gerbert pensò che sembrava una dimora dove regnava l’armonia, la cultura, l’amore…

Si sedette e incominciò ad osservare ogni cosa di quel luogo così raffinato. Le colonne ottagonali e gli archi erano realizzati in mattoni, mentre i capitelli erano in pietra. La parte centrale del patio era pavimentata con piccoli ciottoli di fiume bianchi e neri che creavano un mosaico con una grande Stella di Davide circondata da elementi geometrici.

Nel portico di fronte, addossata alla parete, c’era un fontana di marmo bianco, con una nicchia al cui interno c’era una statuetta raffigurante un cavallo stilizzato; sull’acqua galleggiavano petali di fiore di tanti colori diversi.

Dietro di lui, in un’altra nicchia incorniciata da maioliche verdi, era collocato un vaso da cui proveniva un profumo dolce e suadente.

Gerbert era stordito da tanta bellezza, emozionato. La stanchezza, il lieve rumore dell’acqua della fontana e il flauto lo stavano portando ad uno stato mentale di intorpidimento.

«Lieto sia il tuo giungere in quel di Cordova, straniero…»

Gerbert fece un balzo per lo spavento, la voce improvvisa lo richiamò alla realtà. Saltò in piedi e aveva un’aria stranita.

Hasday aveva parlato in latino. Era un signore sulla cinquantina, più basso e robusto di Gerbert, ma con un portamento elegante. Vestiva una lunga tunica bianca fermata in vita da una fascia azzurra in seta, dello stesso colore era il suo turbante. I suoi occhi tradivano un certo divertimento nell’osservare quel giovane dall’aria smarrita.

Gerbert non fece in tempo a rispondere che Hasday ricominciò a parlare.

«Il mio servitore mi ha riferito che rechi una missiva dal mio caro amico Alfonso… è corretto?»

«Si signore, è corretto.» Dicendo questo Gerbert gli porse la lettera.

«Devo leggerla subito o posso farlo più tardi? Tu sai che cosa riporta questa lettera?»

«Non so con esattezza ciò che Alfonso vi ha scritto, ma credo sia una raccomandazione che concerne la mia persona…» Gerbert lo guardò dritto negli occhi, voleva dare l’idea di una persona affidabile e sincera.

«Bene, allora leggiamo…»

Aprì la lettera e, mentre leggeva, a tratti sorrideva.

«Alfonso parla molto bene di te, straniero. Dice che sei un uomo di cultura, dall’indole pacifica e comportamento onesto. Sono ottime credenziali. Mi chiede di aiutarti e introdurti nel circolo degli intellettuali che risiedono qui a Cordova.» Guardò Gerbert e fece una breve pausa.

«Lo farò con piacere, giovane cristiano. Gerbert d’Aurillac. Sono debitore con Alfonso e, inoltre, mi piace aiutare chi si impegna per rendere questo mondo più colto e vivibile, di qualsiasi religione faccia parte…»

Dentro di sé Gerbert tirò un sospiro di sollievo e ringraziò il Cielo.

«Potrai vivere qui nella mia casa, ti darò una stanza nell’ala della servitù, e qualche ora al giorno mi farai da segretario, così guadagnerai qualche soldo e avrai il tempo di recarti nelle biblioteche a studiare. E’ un’offerta che ti aggrada?»

«Certo signore! E’ molto di più di quanto potessi sperare…»

«Quali sono i campi del sapere dove ti sei cimentato finora…»

«Filosofia e matematica. Ma vorrei approfondirle e mi piacerebbe studiare l’astronomia.»

«L’astronomia… ti presenterò Abu Maslama al-Majriti. Sono sicuro che troverai interessante anche Lubna, te la farò conoscere quando andremo a Madinat al-Zahra, la radiosa, residenza del nostro benevolo a magnifico califfo Al-Hakam.»

«Lubna? Una donna?» Gerbert era visibilmente stupito.

«Si, giovane cristiano, una donna. Qui nel califfato di Cordova non fa differenza se sei islamico, ebreo o cristiano, uomo o donna. Ciò che conta è la tua bravura, la tua passione per la cultura e il sapere. Nelle nostre biblioteche lavorano circa 170 donne: sono colte e danno un contributo incredibile nel copiare i testi. Le loro calligrafie sono raffinate e perfette. Le due segretarie del califfo, cariche di responsabilità, sono due donne, Lubna e Fatima. Ma ti renderai conto tu stesso, col tempo…» Hasday sorrideva benevolo.

Gerbert ascoltava rapito, ma si sentiva confuso, aveva bisogno di riflettere, di mettere un ordine, anzi… di riorganizzare il suo ordine mentale. Lì tutto era diverso, sorprendente. Capì che poteva aspettarsi qualsiasi cosa.

«Non preoccuparti Gerbert, ti vedo confuso, ma è giusto così. Sarai stanco del viaggio e probabilmente affamato.» Hasday batté le mani e una serva, piuttosto anziana, sembrò materializzarsi dal nulla.

«Rashida, servi la cena per questo nostro ospite e preparagli un bagno, alloggerà nella camera che era del mio segretario. Domattina, dopo colazione, conducilo da me.»

Rashida inchinò il capo in segno d’assenso.

«Ci vedremo domani Gerbert, ti aspetterò nel mio studio. Che il velo nero della notte scenda su di te e ti doni sogni magnifici.»

«Grazie maestro Hasday. Che Dio vi abbia in gloria.»

Il flauto continuava a suonare, accompagnato da un tamburello. Gerbert  pensò che quello sembrava un sogno, una realtà sospesa e rarefatta.

Seguì Rashida e passarono nell’altro patio che aveva visto dall’ingresso: una fontanella bassa, tonda e anch’essa coperta da petali di fiore, stava nel centro. Salirono per una rampa di scale e arrivarono al primo piano, dove un corridoio, le cui finestre davano sul patio, permetteva l’accesso ad alcune stanze. La prima era la sua.

«Questa è la vostra stanza, signore» parlando Rashida aveva aperto la porta e, con la lucerna che portava in mano, aveva acceso una lampada ad olio. «Accomodatevi pure, a breve vi porterò la cena e l’acqua per il bagno.»

La camera era piuttosto grande, il doppio di quella che abitava a Vich. Le pareti erano di un colore giallo spento, ed erano presenti tre nicchie, in una delle quali c’era un bassorilievo in gesso che rappresentava un candelabro a sette braccia. Il letto era confortevole, arricchito da cuscini e coperte dai tessuti preziosi. Una scrivania, delle mensole, una cassapanca, un grande catino posto su un tavolo piuttosto basso, una brocca d’acqua con degli asciugamani completavano l’arredamento. L’effetto era molto accogliente. Anche in questa stanza c’era una finestra che si apriva sulla strada. Gerbert guardò fuori: la via era illuminata da torce, due uomini stavano passando con calma, chiacchierando. Poco dopo una, due, molti voci si udirono, quasi all’unisono: «Allah akbar…». Iddio è il più grande. Il richiamo alla preghiera.

Gerbert pensò che era una buona idea pregare… il richiamo poteva essere valido anche per lui.

Si inginocchiò, chiuse gli occhi, e incominciò a pregare il suo Dio.

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